“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”.

Sono tanti i momenti in cui pensiamo alla testimonianza di una vita cristiana e cerchiamo di capire come vivere la santità. Ma queste occasioni, in realtà, ci capitano sempre sia nella nostra vita privata sia in quella sociale, nelle relazioni, nel percorso di vita quotidiana in cui costruiamo la nostra storia.  La storia sembra essere l’inseguirsi, l’incrociarsi, l’incontrarsi di nomi e volti, di fatti e di storie che un filo quasi invisibile riesce poi a legare.

La storia del giudice Rosario Angelo Livatino, il 9 maggio 2021 proclamato beato, ci dona la prospettiva di una santità laicale alla quale tutti siamo chiamati.

Il giudice, all’età di soli 38 anni, veniva assassinato la mattina del 21 settembre del 1990, mentre percorreva con la sua utilitaria e, senza scorta per sua scelta, la strada per raggiungere il tribunale di Agrigento, suo posto di lavoro, da quattro killer assoldati dalla “stidda agrigentina” che così voleva mostrare i muscoli e rendersi indipendente dalle altre cosche siciliane.

Il processo di beatificazione ci riporta la testimonianza di due donne, una pugliese e una siciliana, guarite inspiegabilmente per miracoli attribuiti all’intercessione di Livatino. Accanto a queste storie più “private” dobbiamo aggiungere e guardare però ad altro. Le testimonianze e i documenti raccolti in questi anni ci parlano appunto anche di altro, di una figura luminosa per la testimonianza di vita cristiana e civile, e soprattutto per la coerenza evangelica che emerge nella sua vita. Per lui l’esperienza di fede cristiana e la vita non possono non incrociarsi Sub Tutela Dei, sotto lo sguardo di Dio!  Come infatti riferisce il postulatore della causa di beatificazione (Don Giuseppe Livatino suo lontano parente), il giudice Livatino “conosce e vive il Vangelo, conosce ed applica le riflessioni dei Padri conciliari sul ruolo del fedele laico nel mondo di oggi. Rosario sa bene, anche grazie alla sua esperienza formativa vissuta nell’Azione Cattolica, che il cristiano è chiamato ad essere “luce del mondo e sale della terra”, che deve santificare, nella famiglia e nel lavoro quotidiano, il mondo. Ma il “magistero” di Rosario non si limita al “fare” quotidiano: la sua è una scelta di vita cristiana radicale, che deve “evitare il male e fare il bene”: evitare il male significa rifiutare con fermezza il peccato: “il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta”, scriverà nella conferenza su “Fede e diritto” tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì e dirà, nella stessa conferenza: “rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”.

La storia, che in quei mesi di fine estate del 1990, vedeva l’opinione pubblica più attenta alle vicende della prima guerra del Golfo, fa incrociare la morte del giudice con quella dei suoi aguzzini; quello sguardo e quell’invocazione “picciotti cosa vi ho fatto?”, mentre precisi colpi di pistola sul volto lo freddavano, saranno poi fondamentali per il percorso di revisione di vita di uno dei sicari, Gaetano Puzzangaro, che chiederà di deporre al processo di beatificazione.

Quel filo della storia che intreccia eventi e fatti, è legato anche dalle date. E quella del 9 maggio, giorno della beatificazione, non è una data a caso perché in quello stesso giorno del 1993, nella valle dei templi della città siciliana, San Giovanni Paolo pronuncia il suo forte anatema contro la mafia. Il 9 maggio è anche l’anniversario dell’uccisione mafiosa di Peppino Impastato, avvenuta nel 1978, giornalista di Cinisi, noto per le sue denunce delle attività di Cosa Nostra. Il 9 maggio è anche la data dell’uccisione di Aldo Moro.

Già Giovanni Paolo II, incontrando ad Agrigento i genitori del giudice, aveva definito Livatino “un martire della giustizia e indirettamente della fede”. Sarà il primo giudice beato e la prova del martirio “in odium fidei” del giovane giudice siciliano arriva anche grazie alle dichiarazioni rese da uno dei quattro mandanti dell’omicidio, grazie alle quali è emerso che chi ordinò quel delitto conosceva quanto Livatino fosse retto, giusto e attaccato alla fede e che per questo motivo, non poteva essere un interlocutore della criminalità. Andava quindi ucciso. Qualche anno prima da sostituto procuratore aveva condotto le indagini sugli interessi economici della mafia, sulla guerra di mafia a Palma di Montechiaro, sull’intreccio tra mafia e affari, delineando il “sistema della corruzione” Dalle indagini dell’epoca emergeva come importanti esponenti locali delle associazioni criminali agrigentine, quando Livatino era ancora in vita, lo etichettassero come “uno scimunito”, un “santocchio” perché frequentava assiduamente la parrocchia di San Domenico, a pochi passi dalla casa in cui viveva con i genitori. Dagli studi condotti e dalle testimonianze dirette sappiamo dell’altissimo senso del dovere, dello Stato, delle istituzioni.

Papa Francesco ha definito il magistrato «un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge».

Ecco come nelle pieghe della storia, le vicende umane si intrecciano e si incontrano con percorsi di laicità e testimonianze di santità. Il messaggio e l’insegnamento che Livatino ci consegna va vissuto ogni giorno e fino in fondo. Un invito alla coerenza, ad essere persone serie e cristiani seri, di testimoni credibili del Vangelo e del messaggio della vita buona che ne scaturisce.

Il giudice ragazzino, lo definirà Cossiga qualche anno dopo (forse un’espressione infelice per il contenuto che darà nel parlare dei giovani magistrati) e giudice ragazzino rimarrà per noi grazie al   libro e al film sulla sua vita. Di quel “ragazzino” vogliamo preservare tutto, del cristiano e dell’uomo che è stato. Ci accompagnerà sempre il suo efficace pensiero e il suo spronarci: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.»

Giuseppe Sorice
Incaricato diocesano per la promozione associativa




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