L’astensione degli infelici

Marco Iasevoli – Il crollo drammatico dell’affluenza alle urne durante le amministrative di domenica e lunedì è stato già analizzato in lungo e in largo. Ma il limite di queste analisi – ciò che le rende perennemente incomplete – è che seguono sempre e solo una logica politicistica, poco ancorata alla vita reale.

In sintesi, si scontrano due linee di pensiero. La prima, avallata dalla maggioranza delle larghe intese, è costruita su alibi (il derby di Coppa Italia, per dirne uno…) e su autorassicurazioni: “I partiti tradizionali non sono crollati, è crollata l’antipolitca, è crollato M5S”, è il ragionamento ricorrente. Per scelta, si va poco a fondo nell’analisi dell’astensionismo, perché troppo delicato è il filo che tiene in piedi il governo e la maggioranza. La seconda linea di pensiero è del tutto antitetica: “Le larghe intese hanno disgustato gli elettori”, dicono ad una voce M5S, Sel e l’extradestra radicale.

Senza entrare troppo nel merito di queste argomentazioni un po’ astratte, vale la pena sottolineare due aspetti di carattere generale:

1) le elezioni nazionali con il Porcellum sono in sostanza un voto di opinione disancorato dai candidati, mentre le amministrative rappresentano ancora un classico “voto di consenso”, con le sue logiche di apparato e – anche – clientelari. Ogni paragone e confronto va preso con le molle;

2) allo stesso tempo, non si può non constatare come l’astensione bocci in modo particolare M5S, che del coinvolgimento dei cittadini – di tutti i cittadini – alla cosa politica ha fatto il proprio pilastro programmatico. Da quando i grillini hanno messo piede nei Palazzi i risultati elettorali sono stati inferiori alle attese. Forse vuol dire che la domanda di partecipazione e “nuova politica” è ancora lì che balla, insoddisfatta anche delle sortite di Beppe Grillo.

L’analisi che più ci sta a cuore però è un’altra. E ha a che fare con le persone in carne ed ossa. Quando si arriva a dinamiche per cui un cittadino su due non va a votare, bisogna interrogarsi a fondo sul malessere che attraversa il Paese. Le persone sono infelici. Sono infelici perché ogni giorno, nella loro strada, chiude un negozio. Perché le aree industriali sono desertificate. Perché i figli diplomati e laureati si svegliano di mattina e non sanno cosa fare. Perché troppi 50enni sono rimasti esposti al vento della vita senza stipendio, con un mutuo o un affitto da pagare e senza prospettive. Perché le giovani coppie sono intrappolate da una precarietà sempre più precaria.

Come si fa a chiedere a queste persone, la cui infelicità ormai si legge negli occhi, di “dare fiducia” a qualcuno? E poi a chi? A candidati che, sprezzanti del pericolo, vanno al mercato a dire che tasseranno di meno le bancarelle, al canile a dire che si occuperanno dei cani, all’acquario a dire che si occuperanno dei pesci? Di questi tempi, a fronte di persone infelici e preoccupate, e molto più consapevoli di prima dei problemi del Paese, occorre esser “bravi” anche a fare demagogia…

L’infelicità delle persone chiama in causa direttamente la qualità della classe politica che si propone alle città e al Paese. Ancora una volta abbiamo visto in campo candidati del ‘900, carichi di ideologie e disarmanti nella loro vuota e ormai palese demagogia. La crisi economica chiede anche un nuovo modo di fare politica. Più sincero. Più vero. Più vicino. Capace di visioni organiche. Che unisca evocazione e realismo.




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