Dentro questo tempo, seguendo i testimoni

 

Versione stampabileVersione stampabile

di Massimo Muratore

«Ecco ora il momento favorevole» (2Cor 6,2). Il credente è chiamato ad essere santo nel quotidiano. Più in generale, la persona di buona volontà è chiamata a decidere, a scegliere il bene, le ragioni di vita buona, più che mai per l’oggi, che è definito un tempo di crisi. Sembra più cogente ed attuale l’analisi di Paolo VI, che ci dice come questo tempo abbia più bisogno di testimoni, che maestri. Un testimone è Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso dalla mafia. È stato avviato il processo di canonizzazione di Rosario Livatino per stabilire le virtù eroiche del Servo di Dio. La prima sessione è stata celebrata a Canicattì, nella parrocchia a cui apparteneva la famiglia Livatino, nel giorno dell’anniversario del suo assassinio (21 settembre u.s.). Un evento che, pur nella impassibilità del rito e della forma giuridica, è stato un momento carico di emozione.

Il punto di partenza di questo iter è la fede di Livatino, così come traspare dai suoi scritti e dal suo vivere quotidiano sub tutela Dei (STD). STD, con lo sguardo rivolto a Dio: con questa sigla annotava la sua agenda, in cui prendevano forma gli impegni delle giornate, con la trepidazione e la speranza in Dio, affidando come sacrificio al Padre l’opera quotidiana. Un punto di partenza è il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Tempi contro la cultura della morte. Il Papa, commosso dai genitori di Livatino, compresa la testimonianza del magistrato, che definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”, non aizzò la folla, non indisse una crociata, ma chiese agli uomini di mafia la conversione, per la pace della Sicilia, per il rispetto della vita.

Rosario Livatino, giovane magistrato, nel deserto dei valori è un testimone per il nostro tempo, specialmente in una terra intrisa di mafia e costretta al compromesso. Gli assassini diedero il colpo di grazia al magistrato sparandogli in bocca, che nel linguaggio mafioso significa: “stà mutu”, non parlare, ora fai silenzio. Il messaggio di Livatino, invece, ha avuto una eco grande; egli continua a parlare con il proprio esempio di laico, di credente credibile, di persona onesta. Ci sono di esempio la sua regola di vita, la propria ricerca di essere uomo dello Spirito; l’aver offerto l’estremo sacrificio in nome dell’etica, dell’integrità, nel tentativo di dare una possibilità di democrazia, di libertà alla provincia di Agrigento, perseguendo i mafiosi con gli strumenti della legge. È di esempio il suo vivere “la fede come istanza vivificatrice dell’attività laica”, il riferimento culturale al Concilio, il riconoscere da laico le radici cristiane all’Italia ed alla cultura istituzionale dello Stato, la definizione della società come “lo stato naturale dell’uomo; come tale è voluta da Dio”, il sentire cum Ecclesia. Tutti questi sono temi attuali per il laicato oggi in Italia; sono sfide per l’Associazione, che in Livatino trova un esempio limpido nella sfida di formare una «nuova generazione di laici impegnati», secondo l’appello di Benedetto XVI a Cagliari.

La tensione laicale, il “meraviglioso scambio” tra Verbo e vita, di cui Livatino ha fatto esperienza con il proprio vissuto e con la professione, per estensione si può applicare ai diversi ambiti di vita, specialmente nel lavoro. Durante una conferenza dal tema “Fede e Diritto” – tenuta a Canicattì, il 30 aprile 1986 – Livatino relazionava: “Contrapporre i concetti, le realtà, le entità della fede e del diritto può dare di primo acchito l’impressione, l’idea di una antinomia, di una contrapposizione teorica assolutamente inconciliabile; l’una, espressione della corda più intima dell’animo umano, dello slancio emotivo più genuino e profondo, dell’adesione più totale ed incondizionata all’invisibile e, in fondo, all’irrazionale; l’altra invece frutto, il più squisito, della razionalità, della riflessione, della gelida ed impersonale elaborazione tecnica: l’idea quindi di due aspetti della vita umana del tutto autonomi e distinti fra loro e, come tali, destinati a manifestarsi e ad evolversi senza alcun contatto o reciproca interferenza: estranei l’uno all’altro […]. Così invece non è: quella che abbiamo definito come prima impressione è una errata impressione perché, alla prova dei fatti, queste due realtà sono continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”. Ed ancora, nella stessa relazione: “Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare … Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona va giudicata!”.

Quanto mai attuale, alla luce delle polemiche sulla giustizia in atto in questi giorni, è la posizione di Rosario Livatino circa la responsabilità del Giudice; le sue parole potrebbero essere utili al dibattito: “L’introduzione del principio della responsabilità civile pare assolutamente inaccettabile per molte ragioni, tutte difficilmente superabili […]. Ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà giudiziaria, incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea a produrre danno. […]. Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore. E sarebbe quindi inevitabile ch’egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo. […]. Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere. […]. La colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data dall’importanza degli interessi sui quali egli dispone. […]. L’altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature, è semplice prevedere che il giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla giurisprudenza maggioritaria della Cassazione. […]. Il giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze che si scontrano fra loro e sarebbe difficile ch’egli non fosse tentato, se non è riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte. […]. Se l’organo dell’accusa sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Dai reati societari all’urbanistica, all’inquinamento ed in genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi. […]. Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l’ardire di imprigionare, ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse assolto. […]. Questo è l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice: essa punisce l’azione e premia l’inazione, l’inerzia, l’indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della propria impunità. […]. Tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una più effettiva valenza del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra giustizia penale sarebbero retrocesse in un istante all’epoca dello Statuto Albertino” (Il ruolo del giudice nella società che cambia, Conferenza, 07 aprile 1984).

L’Arcivescovo di Agrigento ha prudentemente sottolineato come questo processo sia all’inizio di un percorso il cui esito e la cui fine non è possibile determinare. È necessaria la preghiera al Padre. Confrontarsi con la storia di Rosario Livatino può solo far riflettere, e già questo, insieme alla preghiera, è un fattore di speranza, specialmente per la Sicilia, che conta numerosissime vittime di mafia, della sua crudeltà, della sua cultura di prevaricazione. Livatino, dunque, come una dei tanti tralci di una vigna frondosa, piantata in un terreno di civiltà, di bellezza, di amore alla vita.

 




Url: http://www.acmolfetta.it/web/2011/10/05/dentro-questo-tempo-seguendo-i-testimoni/