Nel weekend dell’8 e 9 Marzo 2025 noi giovani della Diocesi abbiamo vissuto un momento di spiritualità presso “Villa della Speranza” ad Ostuni per riflettere sul tempo dell’attesa affinché possiamo imparare a viverlo al meglio e soprattutto non in maniera passiva, come fosse una sala d’attesa. Il tempo dell’attesa è difficile da vivere e da riconoscere perché la foga e la freneticità della quotidianità non lo permettono, a tal punto da voler evitare questo tempo occupandolo con le mille cose da fare, perché “così è più semplice”. Durante questa esperienza abbiamo potuto ascoltare il silenzio, mettere noi stessi al centro della riflessione, riscoprire la gioia di chi attende, allenare i nostri cuori alla speranza, camminare insieme, abitare e condividere le domande e i dubbi che ci assalgono, lasciandoci turbare e sconvolgere dalla Sua Parola e dalle riflessioni degli ospiti.
Per entrare nel vivo del tema dell’attesa, il Frate Giandomenico Placentino ci ha riproposto la pagina biblica che narra del Diluvio Universale, simbolo di una grande catastrofe, di grande paura, e dell’uomo dell’attesa Noè, che si affida a Dio e che costruisce un’arca senza mezzi per navigare, ma solo per poter galleggiare. Noè, infatti, non fugge dal diluvio navigando, bensì galleggia e sosta della tragedia, accogliendo il momento di crisi senza respingerlo, senza eliminare la paura. Questo racconto e le parole di Fra Giandomenico ci hanno insegnato che attendere, come si è soliti pensare, non è un’azione passiva, noiosa, ma è strettamente legata alla speranza perché solo chi sa sperare può imparare ad attendere. L’arca ci è stata definita come un “laboratorio di gentilezza” in cui ci si prende cura degli altri. L’attesa va vissuta come questo laboratorio di gentilezza e la vita, di conseguenza, va vissuta in un’ottica di speranza, speranza di un bene che si realizzerà se ci si affida a Dio, perché è qualcosa che “nasce sull’amore e si fonda sull’amore”.
Uno dei diversi momenti che maggiormente ci ha fatto sentire in relazione con noi stessi, con Lui e per certi aspetti con gli altri, è stata la veglia. Ci siamo fatti interrogare e mettere in crisi da quaranta provocazioni, frasi, parole presenti su dei salvagenti. Per capire cosa? Per cercare di comprendere che la notte non è eterna, che ci sarà sempre qualcuno a darci metà del suo tempo e della sua felicità in questa notte che poi, in fondo, tanto inutile non è; ci sarà sempre qualcuno pronto ad abbracciarci, a farci da spalla, a mostrarci la luce nel buio totale. Bisogna “solo” attendere, con tutte le difficoltà e le incertezze che questo verbo implica, sperare e affidarsi, perché in Lui tutto è possibile, senza dimenticare che il punto più profondo è il punto più alto.
“Trovare l’alba dentro l’imbrunire” è stata proprio la frase che ha accompagnato la riflessione e il discorso della teologa Emanuela Buccioni. Colui che non attende si chiude in sé stesso e non vive a pieno la propria vita. La teologa ci ha spiegato che le radici ebraiche mostrano che il verbo “attendere”, in ebraico “qawah”, significa “tendere, at-tendere, tenersi in tensione”. L’idea è pertanto quella di un filo, di una corda, “qaweh”. Da tutto ciò deriva la parola “speranza”, in ebraico “tiqwah”: colui che at-tende è colui che spera, colui che ha una determinazione ostinata a fare il possibile perché vada tutto bene. Il cerchio si chiude: la speranza è la capacità di vedere che c’è una luce nonostante tutte le oscurità.
L’AC permette di vivere il tempo dell’attesa in maniera autentica, tenendo insieme la riflessione e il divertimento. Probabilmente questo racchiude perfettamente quello che per noi giovani è accaduto in questi due giorni: abbiamo messo un attimo in stand-by le nostre vite frenetiche per riflettere, per abitare il nostro deserto individuale, per vivere la spiritualità e il tempo dell’attesa, ma anche per divertirci, per provare quel divertimento autentico e sano che ci fa ridere per le cose più banali fino ad avere i crampi allo stomaco, le lacrime agli occhi e fino a farti perdere la cognizione del tempo.