Assemblea diocesana di inizio anno – Lectio a cura di don Gianni

Lectio sull’icona evangelica di Mc 10, 35 – 45

(di don Gianni Fiorentino, Assistente unitario)

 

Servire e dare la propria vita

 

L’Ac nazionale ci chiede di riflettere quest’anno sul tema importante e delicato del servizio, a partire dal famoso episodio della richiesta a Gesù dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di sedere nel suo nuovo Regno uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. È all’interno di questo racconto, infatti, che troviamo incastonato, come una perla rarissima, lo slogan dell’anno associativo: Servire e dare la propria vita!

Marco fa precedere il fatto da un’introduzione che reputo preziosissima, perché dà alla pagina evangelica un respiro più ampio e una comprensione più piena dell’insegnamento di Gesù.

«Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà”» (10, 31-34).

La prima indicazione, quella che ritrae Gesù in cammino – e che ad una lettura superficiale potrebbe apparire semplicemente sussidiaria alla narrazione stessa – da sola è già Vangelo, bella notizia: riesce, infatti, a sollevarci dalle nostre sfiducie quotidiane e a rimetterci in piedi per un inizio sempre nuovo.

Questo infaticabile camminare di Gesù, che all’imperfetto della lingua greca esprime un’azione che continua nel tempo, vuole proprio ricordarci che il Risorto è colui che ancora ci raggiunge e fa la strada con noi! (cf. Lc 24). Lui è sempre davanti, ci precede e ci apre la via. E la nostra fiducia e la nostra gioia consistono proprio nell’essere suoi discepoli: stare con Lui, camminare dietro a Lui, seguirlo.

Ci colpisce questo dettaglio narrativo, perché ci ammonisce che Gesù non è venuto ad insegnarci una filosofia o un’ideologia, ma a indicarci una «via», una strada da percorrere con Lui. E la strada – volendo evocare una bella e famosa canzone di Baglioni – la si impara facendola insieme.

Questa è (deve essere!) la nostra gioia: camminare con Gesù.

1.   Da Gesù Missionario nasce una Chiesa e un’Ac missionaria

Questa prima suggestione mi porta spontaneamente a chiedermi e a chiedervi: riusciamo, come Chiesa e come Ac, a tenere il passo del suo camminare continuo? O ci succede, piuttosto, di avanzare stancamente, perché troppo adagiati su prassi pastorali e associative che hanno fatto il loro tempo?

Riconosciamolo: molto spesso amiamo andare in cerca di conferme a ciò che già pensiamo, ci nutriamo di ripetizioni e ridondanze, incapaci di «pensare in un’altra luce». Tanto che il nostro stile ecclesiale talvolta insinua il sospetto che siamo rimasti ancora discepoli di Giovanni Battista, la cui missione – come sappiamo bene – non fu quella di andare in cerca della gente, ma di stare in un luogo disabitato, perché fosse la gente ad andare da lui. Eppure, proprio da lui proviene l’indicazione di mettersi alla sequela del nuovo Maestro: «Fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù» (Gv 1,35-37).

Il Gesù dei Vangeli è il primo missionario della storia che si muove per città e villaggi per cercare tutti, raggiungere tutti, salvare tutti. E a coloro che lo seguono chiede di imitare la sua itineranza missionaria.

Chiediamoci con coraggio: cosa ci fa preferire la pastorale stanziale del Battista a quella itinerante di Gesù? Cosa ci trattiene dall’aprirci all’azione perenne di uno Spirito che come un vento carico di pollini di primavera sempre riempie di novità le vecchie forme e passa oltre?

Ma l’evangelista ci dice che proprio nel momento in cui Gesù preannuncia la sua passione, morte e risurrezione, due di loro, Giacomo e Giovanni, avanzano una richiesta di privilegio: «Nel tuo nuovo regno vogliamo stare accanto a Te». E così, continuando a rimanere legati alla visione di un Messia potente e vincitore, rivelano quanto siano distanti dal modo di pensare del loro Maestro.

Anche in questo caso, il testo di Marco ci interroga fortemente e ci costringe a chiederci:

  • Possiamo affermare che la nostra idea di discepolato è davvero libera da sogni di realizzazione terrena?
  • Possiamo noi considerarci immuni dalla tentazione «dei posti d’onore»?

Per farci rispondere a queste provocazioni, Marco pone sulle labbra di Gesù questa domanda rivolta ai due: «Che cosa volete che io faccia per voi?». È strategico questo interrogativo: nel tentativo di renderci pienamente consapevoli di ciò che si agita nel nostro cuore, Gesù chiede anche a noi oggi cosa realmente vogliamo da lui, qual è il nostro progetto di vita.

Ed è significativo che la stessa medesima domanda Gesù la ripeta al cieco di Gerico, nell’episodio immediatamente successivo, («Che cosa vuoi che io faccia per te?», Mc 10, 51). Solo che, a differenza dei due discepoli, Gesù esaudisce la sua richiesta. L’intento dell’evangelista, accostando i due episodi, è fin troppo chiaro: ad aver bisogno di aprire gli occhi per seguire Gesù, sono proprio i suoi discepoli.

Gesù, tuttavia, non si accontenta di notare il loro sbaglio e la loro ignoranza. Prima verifica se sono disposti a seguirlo per davvero, adoperando le due immagini del battesimo e del calice come chiaro rimando alla sua morte, e subito dopo corregge il comportamento degli altri, che criticano  i due fratelli – è vero –, ma solo per il fatto che avrebbero anch’essi voluto fare lo stesso.

A questo punto, c’è un inciso nel racconto su cui non possiamo passare troppo in fretta.

Scrive Marco: «Allora Gesù li chiamò a sé…» (v. 42).

Siamo dinanzi ad un altro gesto delicato del Signore: lungo il cammino, si accorge che c’è bisogno di parlare ai Dodici, si ferma, e li chiama a sé.

Facciamo bene attenzione! Qui Marco descrive la scena ricorrendo al verbo importante della vocazione.  Evidentemente vuole dare al gesto di Gesù un alto valore simbolico: la chiamata ad una profonda comunione d’intenti con lui. Perché la distanza – non tanto fisica, quanto spirituale – che li separa dal suo cuore è ancora molto grande. Occorre una comunione con Lui capace di generare persone nuove: «Chi è in Cristo è una nuova creatura» (2Cor 5, 17). E «nascere» è sempre faticoso: implica, come in questo caso, un entrare nel mistero del «suo» essere Dio, un Dio molto diverso da quello che abbiamo nella mente. È come se l’evangelista ci dicesse:

«Non fatevi illusioni: lo stile del servizio non è un atteggiamento che scaturisce spontaneo dalla nostra volontà, ma è un dono che fiorisce e cresce nel terreno della preghiera e dell’ascolto profondo di Dio! Donare la propria vita mettendola a servizio degli altri significa respingere la tentazione mondana di voler primeggiare e comandare sugli altri, sradicare l’istinto del dominio e del potere, le cui radici affondano nelle profondità del nostro spirito. Potrete avere i suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2,5) solo se saprete coltivare un’autentica familiarità con Lui. Solo così si realizzerà quel cambio di mentalità, capace di farvi passare da ambizioni, arrivismi, onori e trionfi terreni, all’umiltà e alla logica del donare se stessi. Diversamente quel «tra voi però non è così!», rimarrà soltanto un buon auspicio, un pio desiderio, la vampata di un momento che lascia solo cenere. Perché di fatto continuerete a ragionare come ragiona il mondo e a lasciarvi guidare dalla lusinga del privilegio e del successo».

2.   Da Gesù Servo nasce una Chiesa e un’Ac serva

E così, lungo il cammino della sequela, Gesù prova a farci comprendere il cuore del suo «Dio rovesciato», del suo «Dio debole» (cf. Bonhoeffer), che si fa carne, che non si difende, che occupa l’ultimo posto.

Alle posizioni di privilegio che i due discepoli chiedono, sedere a destra e a sinistra del re potente nella sua gloria, il Maestro contrappone altre due posizioni, quelle in alto e in basso.

Se in alto è la posizione di chi ama dominare e guardare tutti con autosufficienza, quella in basso è la posizione dello schiavo. È la posizione di Gesù! Che «assumendo una condizione di servo» (Fil 2, 7), la sera dell’ultima cena, si cinge il grembiule alla vita e si china sui piedi dei suoi per lavarli.

Terminato il gesto, Gesù dirà: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). La Chiesa nasce da questo gesto divino di Gesù!

Ricordare alcuni pensieri di don Tonino, penso sia d’obbligo, a questo punto:

«La Chiesa non deve mai collocarsi come un assoluto. L’assoluto è il suo Signore Gesù Cristo. La Chiesa è serva umile: quanto più, starei per dire, si toglie di mezzo, meglio è: per far risplendere Lui, Gesù Cristo, lo Sposo che arriva. Un giorno lei, la Chiesa, sarà introdotta alle nozze con l’Agnello: e solo allora ci sarà gloria anche per essa. Prima no. Ogni anticipazione della gloria sarebbe appropriazione indebita».

Anche se si è finito col vestire i ministri della Chiesa con gli stessi abiti dei dignitari della corte imperiale, anche se si è voluto sottolineare l’autorità assegnando quei privilegi che caratterizzano i governanti di ogni tempo, quella frase di Gesù «tra voi però non è così!» deve continuamente essere piantata in mezzo alle nostre assemblee, alle nostre riunioni, ai nostri incontri, ai nostri Consigli. Perché tutti sentano il profumo del Vangelo, lo scandalo della passione e della Croce, l’esigenza del servizio.

Il rischio che come Chiesa stiamo correndo oggi, infatti, è troppo grande! È il rischio di perdere l’appun-tamento con il Signore Risorto che ci visita negli ultimi; e di perderlo, di riflesso, anche  con il mondo. Noi crediamo che i criteri che lui ci ha annunciato e vissuto non sono cambiati. Per questo è urgente che «apriamo gli occhi»! Non per puntarli là dove si riuniscono i grandi della terra, ma dove i piccoli vivono appassionatamente il Vangelo del servizio e della solidarietà; là dove, insomma, per ritornare alla felice intuizione di don Tonino, ci sono bacinelle e asciugatoi, grembiuli e strofinacci. Non ai pranzi di gala o alle sfilate, non nelle esibizioni di sfarzo o di potere, non nei rituali complicati di questa o quella assise.

Quella che Marco qui ci sta presentando è una Chiesa sollecitata da Gesù a vivere il dono della fraternità (cf. 1Cor 13), è la Comunità in cui non c’è spazio per la competizione e le gelosie, perché comprende che il bene di uno è il bene dell’altro (cf Papa Francesco, 27 marzo 2020). «Il primo servizio che dobbiamo rendere – scrive ancora don Tonino – è quello della comunione. Siamo chiamati a essere “servi della comunione”. Questa deve essere la nostra brillante carriera!». E questo – continua più avanti «non per ragioni solo di efficienza organizzativa, ma per una profonda ragione ecclesiologica e profetica: chiunque ha un ruolo nella Chiesa è chiamato non a esercitare un potere, ma a svolgere un servizio».

Proprio a Molfetta, Papa Francesco, commentando il Vangelo, ha pronunciato queste splendide parole:

«Chi si nutre dell’Eucaristia assimila la stessa mentalità del Signore. Egli è Pane spezzato per noi e chi lo riceve diventa a sua volta pane spezzato, che non lievita d’orgoglio, ma si dona agli altri: smette di vivere per sé, per il proprio successo, per avere qualcosa o per diventare qualcuno, ma vive per Gesù e come Gesù, cioè per gli altri. Vivere per è il contrassegno di chi mangia questo Pane, il “marchio di fabbrica” del cristiano. Vivere per! Si potrebbe esporre come avviso fuori da ogni chiesa: “Dopo la Messa non si vive più per sé stessi, ma per gli altri”. Sarebbe bello che in questa Diocesi di Don Tonino Bello ci fosse questo avviso, alla porta delle chiese. Don Tonino ha vissuto così: tra voi è stato un Vescovo-servo, un Pastore fattosi popolo, che davanti al Tabernacolo imparava a farsi mangiare dalla gente. Sognava una Chiesa affamata di Gesù e intollerante ad ogni mondanità, una Chiesa che «sa scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, della sofferenza, della solitudine». Possiamo chie-derci: in me, questo Sacramento si realizza? Più concretamente: mi piace solo essere servito a tavola dal Signore o mi alzo per servire come il Signore? Dono nella vita quello che ricevo a Messa? E come Chiesa potremmo domandarci: dopo tante Comunioni, siamo diventati gente di comunione?»

3.  A mo’ di conclusione, vorrei ora raccogliere quattro avvertenze più concrete sul servizio!

La prima è che servire è una dimensione dell’intera esistenza.

È questo anche il senso dell’altra espressione di Gesù sul servizio: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27). Non, dunque, un frammento del nostro tempo o del nostro agire. E questo perché servire tocca la persona, il suo modo di esistere e non semplicemente le sue azioni e le sue cose.

E proprio perché è uno stile che nasce dal profondo di se stessi esige che la gratuità e l’attenzione all’altro appartenga anche al nostro modo di fare città e di fare civiltà.

È a questa profondità (cioè nel proprio modo di pensare e di ragionare più che di fare) che ci si deve costantemente interrogare, se davvero si vuole imparare a servire.

La seconda avvertenza è che lo stile del servizio si oppone nettamente alla logica del farsi servire.

Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (v. 45). Le due logiche non riescono a convivere, e tentare di farlo è pura illusione: l’una prevarrà sempre sull’altra. Per il vangelo se un uomo è egoista, lo è dappertutto, nella vita privata come in quella pubblica. Questo vuol dire che non si possono vivere alcuni spazi come servizio e altri come ricerca di sé. Lo stile che è sempre, ripetiamolo, un «modo di essere» prima che di fare accompagna la persona ovunque. Se ciò non avviene, significa che il servizio non è ancora diventato una qualità della vita: è qualcosa di posticcio, di fragile, non qualcosa che ha modificato il centro della persona.

La terza attenzione è che servire significa in concreto vivere sentendosi responsabile degli altri.

Così si deve vivere, ammonisce Gesù: prendendosi cura degli altri!  Sentirsi responsabili non è solo questione di generosità, ma di sguardo attento e premuroso, capace di vedere e di capire, come lo sguardo del samaritano che si è accorto dell’uomo lasciato «mezzo morto» sul ciglio della strada (Lc 10,25-37).

La generosità non è ancora il servizio, tanto meno lo slancio di un momento, anche se sincero.

Il servizio non si improvvisa, ma si costruisce: richiede una giusta competenza.

Quello che stiamo vivendo, quello che l’esperienza dell’epidemia ha scritto e ancora sta scrivendo in maniera cruenta sulla nostra pelle, e particolarmente sulla pelle dei più poveri, ci sta chiedendo di cambiare il modello delle relazioni, ma ancor di più, il modello della relazione economica dove, appunto, ci sia spazio per la gratuità e per il dono. Una gratuità non semplicemente accanto o dopo la vicenda umana, sociale ed economica, ma dentro il suo stesso spazio. Altrimenti correremo il rischio di una generosità immediata, confusa, irrispettosa, che inventa forme di servizio che piacciono a chi serve, ma del tutto inutili per chi si vuole servire.

La quarta attenzione è forse la più importante: il vero servizio non raggiunge soltanto i bisogni, ma accoglie la persona.

Si può essere efficienti per quanto riguarda i bisogni, trascurando poi del tutto le persone. Per Gesù la gente, per la quale dona la vita, sono persone, volti, non masse anonime, né semplicemente problemi da risolvere né «funzioni» da utilizzare. Fra le opere buone che Gesù elenca nella grande parabola del giudizio (Mt 25), non si parla solo di dare il pane all’affamato e il vestito a chi è nudo, ma anche di ospitare lo straniero e di visitare gli ammalati e i carcerati. «Ospitare» è un verbo che il Vangelo prende molto sul serio, tanto che l’utilizza per dire addirittura come accogliere il Signore: significa fare spazio nella propria vita, nella propria casa, nelle proprie preoccupazioni. E visitare è un verbo che indica quel vedere cordiale che si accorge e si preoccupa, si sente coinvolto e responsabile. È lo stesso verbo adoperato nel Vangelo per esprimere la visita di Dio in mezzo al suo popolo.

Nel tempo del «monoteismo dell’io» e della «globalizzazione dell’indifferenza» (viviamo, infatti, nella forma dell’io-massa: ognuno per sé, individualisticamente insieme), Maria santissima, la Serva del Signore, ci aiuti ad «abbandonare il nostro affanno di onnipotenza e di possesso e ad orientarci verso nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà» (Papa Francesco), e a fare nostro il suo stesso voto di vastità.

Sì, perché Maria è la donna che ha fatto voto di vastità, più e prima ancora che di castità!

Con questo sogno nel cuore, Maria ci conceda di avvertire sempre la  «responsabilità capitale di realizzare le parole sono del grande Giorgio La Pira un mondo fatto a misura di uomo da uomini fatti a misura di mondo».

Preghiamo insieme

Signore e Padre dell’umanità,
che hai creato tutti gli esseri umani con la stessa dignità,
infondi nei nostri cuori uno spirito fraterno.
Ispiraci il sogno di un nuovo incontro, di dialogo, di giustizia e di pace.
Stimolaci a creare società più sane e un mondo più degno,
senza fame, senza povertà, senza violenza, senza guerre.

Il nostro cuore si apra

a tutti i popoli e le nazioni della terra,
per riconoscere il bene e la bellezza
che hai seminato in ciascuno di essi,
per stringere legami di unità, di progetti comuni,
di speranze condivise. Amen.
                                            (Papa Francesco, Fraters omnes, 287)

Giovinazzo, Auditorium don Tonino Bello – Sabato, 10 ottobre 2020




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