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IL GIUDIZIO DI AMMISSIBILITA' DEI REFERENDUM ABROGATIVI

 

 

1. Introduzione;

2. I numerosi parametri di giudizio di natura giurisprudenziale;

3. Il problema dei quesiti cosiddetti "manipolativi";

4. Conclusioni

 

 

 

 


INTRODUZIONE

Secondo il tenore letterale dell'articolo 75 della nostra Carta Costituzionale, "è indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali".

In realtà, quella fornita dal testo costituzionale rappresenta nulla di più che l'ossatura, l'impalcatura portante di un procedimento ben più vasto e complesso, che ha trovato la sua formalizzazione normativa per effetto della Legge 352 del 1970 e che ha registrato, nel corso degli ultimi decenni, importanti mutamenti, a causa della lunga serie di interventi giurisprudenziali, operati da parte della Consulta.

Dovendo, in questa sede, notevolmente schematizzare la questione, si può dire che l'intero procedimento referendario, dal suo esordio sino alla conclusione, si articola in quattro fasi e, precisamente:

1. La formazione e la presentazione della richiesta referendaria, da parte dei soggetti legittimati, così come risultano dal disposto costituzionale.

2. La fase di controllo della richiesta referendaria che assume i due caratteri della verifica della legittimità della procedura (da parte dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione) e della ammissibilità del quesito, assegnata, come vedremo meglio, alla competenza della Corte Costituzionale.

3. La fase dell'indizione della consultazione e del suo svolgimento (in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno di ogni anno).

4. Infine, la fase della proclamazione dei risultati e della conseguente produzione degli effetti giuridici del referendum.

Il tema che riguarda più direttamente la presente analisi si colloca, all'interno dello sviluppo procedimentale appena descritto, al punto 2 e riguarda l'intervento che è chiamata a svolgere la Corte Costituzionale e che si sostanzia in un controllo di ammissibilità costituzionale del quesito referendario proposto.

La Corte, più precisamente, all'esito del (positivo) giudizio di legittimità solo formale, operato dall'Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione, è chiamata a valutare se il quesito referendario proposto, per come è stato formulato, sia o meno conforme a Costituzione e, in caso negativo, a dichiarare inammissibile la proposta referendaria, bloccandone insindacabilmente il corso.

Non v'è chi non veda, in proposito, come il ruolo attribuito alla Corte, in questa materia, assuma una rilevanza addirittura vitale per le sorti dell'intero procedimento referendario e, conseguentemente, come le decisioni della Consulta finiscano per condizionare notevolmente l'esercizio in concreto di uno dei diritti costituzionali sui cui trova fondamento la nostra democrazia, vale a dire quello di voto.

 


I NUMEROSI PARAMETRI DI GIUDIZIO DI NATURA GIURISPRUDENZIALE

La questione di fondo, cui cercheremo di fornire una risposta nelle righe che seguono, consiste dunque nel comprendere quando un quesito referendario debba dirsi in contrasto con la Costituzione, sino a doversi considerare meritevole di una declaratoria di inammissibilità, da parte della Corte. Orbene, sul punto è opportuno precisare, sin d'ora, come il tema non sia affatto caratterizzato dalla vigenza di un principio di tipicità, e che, proprio per questo, la concreta linea di confine tra la legittimità e l'illegittimità costituzionale dei quesiti proposti sia stata tracciata, in sostanza, nel corso degli anni, dagli stessi pronunciamenti della Corte che si sono susseguiti.

Sul piano normativo, infatti, l'unica prescrizione esplicita in materia di inammissibilità dei referendum è rintracciabile all'interno dell'articolo 75 il quale, al suo secondo comma, così recita: non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Sembrerebbe, dunque, ad una prima analisi, che l'unico limite alla ammissibilità dello strumento referendario sia rintracciabile nei "paletti" testuali forniti dall'articolo 75 della Costituzione e che, al di fuori di essi, esista una sorta di "diritto incondizionato al referendum", in favore dei soggetti legittimati a richiederlo. A ben vedere, tuttavia, la Corte Costituzionale, chiamata, sin dall'entrata in vigore dell'istituto, a sindacare sull'ammissibilità dei quesiti proposti, ha utilizzato molto estensivamente il proprio potere, ampliando notevolmente il limite testuale di cui s'è detto.

In particolare, rappresenta una tappa fondamentale nell' evoluzione del concetto di controllo di ammissibilità sui referendum, la Sentenza numero 16 del 7 febbraio 1978, attraverso la quale la Corte pose, per la prima volta, una sorta di "codice" dei motivi di inammissibilità, una specie di elencazione degli elementi sintomatici, in presenza dei quali il quesito avrebbe dovuto dirsi inammissibile. Tale casistica veniva ricondotta, sostanzialmente, a quattro differenti categorie e, precisamente:

1. L'eterogeneità della richiesta referendaria, che potrebbe sostanziarsi nella presentazione di una pluralità di domande di abrogazione "indipendenti" le une dalle altre o, per impiegare un'espressione ampiamente utilizzata dalla Consulta, non unificate da una "matrice razionalmente unitaria".

2. La presentazione di quesiti referendari aventi ad oggetto il testo costituzionale, le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali, nonché gli atti legislativi dotati di forza passiva rinforzata.

3. La richiesta di referendum avente ad oggetto atti normativi che, pur essendo di natura ordinaria, riguardino materie a contenuto costituzionalmente vincolato.

4. Richieste referendarie aventi ad oggetto disposizioni normative intimamente connesse all'ambito di operatività delle leggi di cui all'articolo 75, secondo comma.

Tale elencazione, peraltro, lungi dal porsi quale immutabile "stella polare", capace di condurre l'esegeta del diritto ad univoche ed indiscutibili prognosi sulla ammissibilità o meno dei singoli quesiti proposti, fu destinata, negli anni seguenti, a subire profonde e notevoli rivisitazioni ed integrazioni, da parte delle successive pronunce giurisprudenziali. Ciò consentì alla dottrina di denunciare (spesso a ragione), la sostanziale arbitrarietà del procedimento e l'enorme potere conferito alla Corte, la quale avrebbe potuto, a suo piacimento e convenienza, accorciare ed estendere la nozione di ammissibilità, proprio come avveniva nel mitico letto di Procuste.

Al di là, infatti, degli intendimenti -certamente lodevoli ed animati da buona fede- dei Giudici Costituzionali, ciò che si registra, ormai da decenni, è la sostanziale assenza di un modello sicuro e condiviso di controllo di ammissibilità dei referendum, con il conseguente venir meno della certezza del diritto, in questa delicata materia. E presente, nella dottrina, la diffusa consapevolezza che le numerose pronunce della Corte che si sono succedute e che hanno concorso, in questi anni, a caratterizzare l'istituto referendario, rappresentino una giurisprudenza incerta, se vogliamo magmatica, in cui, come ebbe a dire il compianto Livio Paladin, l'unica certezza è l'incertezza.

Non a caso, già nel 1981, con la Sentenza numero 27, la Consulta avvertì la necessità di individuare ulteriori ragioni di inammissibilità, da aggiungere alla casistica già elaborata nel 1978 e le individuò nella carenza di chiarezza, di semplicità e di coerenza del quesito.

Tali, ulteriori, parametri di ammissibilità, introdotti dalla giurisprudenza della Corte, venivano ispirati dalla condivisa necessità di garantire, in concreto, al corpo elettorale, la possibilità di optare tra due differenti alternative, nettamente individuabili e logicamente riconducibili alla logica binaria del "sì" o del "no". Sul punto, invero, al di là dei pur condivisibili intenti volti a "difendere" l'elettore dalla proposizione di quesiti concretamente incomprensibili, non si può non registrare come, nel tempo, al parametro della chiarezza siano state attribuite numerosissime accezioni, che ne hanno determinato la scomposizione in una lunga serie di "sottocriteri" e la sostanziale perdita del significato univoco e cogente: al parametro della chiarezza, infatti, sono stati, successivamente attribuiti il significato di congruenza in relazione al fine manifestato dai promotori, di esaustività, di razionalità, di semplicità.

Ancora, nel 1987, la Corte Costituzionale, con la Sentenza numero 29, pose l'ulteriore criterio valutativo della cosiddetta significanza teleologica, che consentiva di non limitarsi ad analizzare i profili di illegittimità della sola consultazione referendaria proposta, estendendo il campo di analisi anche alla applicabilità della cosiddetta normativa di risulta, vale a dire alle norme che sarebbero rimaste in vigore, nel caso di un eventuale esito positivo (quindi abrogativo) della consultazione.

Per effetto della contestuale vigenza di tutti questi criteri, che spesso hanno trovato applicazioni confliggenti o, quantomeno reciprocamente discordanti, il giudizio di ammissibilità dei referendum ha definitivamente perso la sua natura di controllo preventivo ed astratto sulla richiesta, per investire definitivamente il merito dei referendum abrogativi proposti, trasformandosi così in un sostanziale giudizio di costituzionalità avente ad oggetto, contemporaneamente, sia la normativa di cui è richiesta l'abrogazione, che quella di risulta.

 


IL PROBLEMA DEI QUESITI COSIDDETTI "MANIPOLATIVI"

Un ulteriore ed importante terreno di discussione e di intervento della giurisprudenza della Corte si intreccia con la necessità, presente per tutti gli istituti di democrazia diretta, di distinguere al loro interno il quesito "esplicito", quello cioè risultante dalla formulazione dilemmatica della domanda, dal quesito "implicito", che costituisce la proposta politica sottostante al quesito esplicito e nella quale si sostanziano le vere finalità referendarie.

Se l' effetto della abrogazione si riducesse ad una valenza soltanto sintattica e letterale, infatti, potremmo dedurne che i due quesiti, quello implicito e quello esplicito, potrebbero essere coincidenti e sovrapponibili: abrogare una norma significherebbe espungere dall' ordinamento una fonte di regolamentazione di una materia e la partita referendaria potrebbe giocarsi solo sulla netta alternativa tra vigenza di una disciplina e sua totale abrogazione.

Sul piano effettuale, tuttavia, la realtà non è mai stata così semplice poiché in molte occasioni la finalità referendaria è stata strumentalizzata per conseguire risultati ben diversi dalla semplice carenza di regolamentazione di una materia. In particolare si può mettere in rilievo che la finalità originaria del referendum abrogativo (così come risulta chiaramente dai lavori della Costituente) era senz' altro quella abrogativa, cioè, in sostanza, oppositiva. Nel tempo e, soprattutto, attraverso la prassi applicativa, però, senza che peraltro fosse riconosciuta una violazione del testo costituzionale, la natura del referendum ha subito uno spostamento d' asse, tramutandosi sempre più frequentemente in uno strumento atto a contrapporre la decisione del popolo alla inerzia del Parlamento rispetto a determinate materie e accentuando senz' altro il proprio carattere partecipativo.

Ad agevolare questa tendenza è stato anche il già citato disposto costituzionale, secondo cui la forza abrogativa del referendum può esercitarsi con due modalità: essa può essere totale o parziale. Nella prima ipotesi le questioni da risolvere non sono molte perché in caso di esito abrogativo la materia prima regolata non lo è più e il problema investe, semmai, le successive forme di regolamentazione legislativa. Le questioni sorgono, invece, allorché si tratti di abrogazioni parziali: individuando con precisione certosina le "parti" di un ampio testo di legge che devono essere abrogate, si otterrà il risultato di "far dire" alla legge ciò che prima non diceva o addirittura di capovolgerne la ratio e il significato. Giuseppe Ugo Rescigno, a tal proposito, usa una eloquente similitudine: se voi da una proposizione che dice "Non si possono cogliere i fiori" togliete la particella "Non", otterrete la proposizione, del tutto sensata ma opposta alla precedente, che dice "Si possono cogliere i fiori". L' istituto referendario abrogativo italiano, dunque, da mera arma "negativa" come era stata concepita dal disegno Costituente, si è progressivamente trasformato in un' arma "positiva", finalizzata a mettere in discussione una nuova proposta che nasce come la risultante sintattica di un sofisticato collage di molteplici abrogazioni e micro-abrogazioni.

Questa prassi, che è stata sostanzialmente avallata, seppur con alcuni limiti, dalla Corte costituzionale, ha assunto la qualifica di "manipolativa" ed ha introdotto surrettiziamente nel nostro sistema, sulle vesti formali di quello abrogativo, un referendum sostanzialmente propositivo. In questa prospettiva, come nota esattamente Vezio Crisafulli, il verbo "abrogare" non significa "non disporre più" bensì assume il significato di "disporre altrimenti".

Il fatto che costituisce il punto di emersione della problematica fondamentale sta proprio qui: con la prassi manipolativa si è cercato di riempire a tutti i costi quel vuoto normativo che deve caratterizzare l' istituto italiano allorché ottiene il suo risultato. Mediante l' impiego della abrogazione referendaria parziale si è cercato di attribuire significati logici e normativi diversi alle disposizioni risparmiate dalla "mannaia" del referendum.

Sul piano pratico, come già anticipato, abbiamo assistito ad un sostanziale assenso della Corte costituzionale rispetto a questa prassi che ha accompagnato l' applicazione del referendum nel nostro Paese, soprattutto a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo. Una realtà di questo tipo, se da un certo punto di vista può aver favorito il prodursi di fenomeni partecipativi da parte del corpo elettorale anche in circostanze in cui poteva esser utile dar voce diretta al popolo, non si è dimostrata certamente chiara ed ortodossa sia sul piano teorico, che in quello dogmatico. La natura e le finalità precipue del referendum abrogativo sono state in qualche modo "snaturate" ed hanno aperto surrettiziamente la strada ad altri modelli referendari, almeno formalmente sconosciuti al nostro disegno costituzionale.

E' opportuno, tuttavia, prendere atto di un certo mutamento di prospettive che la Corte Costituzionale ha dimostrato nelle recenti decisioni le quali, ancorché non siano definibili come rivoluzionarie, certamente paiono porre alcuni limiti all' uso della tecnica manipolativa. In particolare, con la Sentenza 36 del 1997, la Corte chiarisce che, ordinariamente, il carattere abrogativo del referendum implica uno schema binario, spettando ad esso la pars destruens e al Legislatore la pars construens.

L' interrogativo che un orientamento del genere, manifestato dalla Corte, pone e che, verosimilmente non troverà una univoca soluzione, è quello che concerne l' individuazione di un oggettivo "confine" tra esercizio, riconosciuto legittimo, della tecnica del ritaglio, e produzione di un risultato "manipolativo", cioè produttivo di nuove norme, estranee alla originaria ratio della fonte del diritto che si vuol abrogare, ritenuto inammissibile dall' orientamento della Consulta.

Un rilevante passo nella direzione di un chiarimento definitivo del pensiero della Corte è stato compiuto con la Sentenza numero 13 del 1999, relativa alla ammissibilità di un quesito referendario in materia elettorale. In questo caso la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile la richiesta, oltre che per la sussistenza degli altri requisiti richiesti, anche per la rilevata esclusione del carattere manipolativo o surrettiziamente propositivo del referendum in esame. Secondo la pronuncia della Corte, infatti, nonostante la indiscussa operatività, nel caso specifico, della tecnica del ritaglio, non è stato negato il carattere puramente abrogativo del quesito referendario in quanto finalizzato a provocare, mediante una soppressione di una parte più o meno estesa del testo, l' espansione di una disciplina già esistente, provvista di un suo proprio ambito di applicazione, ancorché originariamente residuale. Lo stesso orientamento è stato manifestato con la Sentenza 33 del 2000, mediante la quale è stata confermata la ammissibilità del medesimo referendum elettorale che l' anno precedente non aveva raggiunto il quorum e che era stato successivamente riproposto negli stessi termini.

Il dibattito dottrinario che è seguito alla presa d' atto di questa realtà ha condotto alla conclusione che l' unico sistema per impedire l' impiego creativo e manipolativo del referendum abrogativo sia quello di introdurre, nell' ordinamento costituzionale italiano, una pluralità di tipologie di referendum, ognuna caratterizzata da una specifica e chiara finalità.

 


CONCLUSIONI

Il rapido (e non certo esaustivo) excursus appena svolto ha potuto dimostrare, al di là di ogni dubbio, che la Corte Costituzionale, chiamata ad esercitare il controllo di ammissibilità sulle proposte referendarie, ha spesso abbandonato la strada di un mero giudizio di compatibilità con l'articolo 75 della Carta, per intraprendere, invece, un percorso, per così dire, pedagogico. In molti casi, i Giudici Costituzionali hanno inteso "proteggere" gli elettori da richieste referendarie ritenute oscure o pericolose, comunque potenzialmente produttive di esiti contraddittori.

Come è stato scritto recentemente, tuttavia, la giurisprudenza della Corte, tentando di aggiustare il proprio "tiro" ad ogni occasione, ha finito per perdere in linearità, sino a divenire caotica o, comunque, imprevedibile. Tale realtà ha consentito a larga parte degli operatori del diritto di affermare che "il referendum è ammissibile se la Corte lo dichiara ammissibile e, invece, è inammissibile se la Corte lo dichiara inammissibile". Si tratta, ovviamente, di un evidente espediente tautologico che, tuttavia, ha il pregio di descrivere, meglio di qualunque altra analisi, la situazione che stiamo vivendo.

 

 

Bibliografia Giuffré:

 

 

© Copyright Dott. A. Giuffrè Editore Spa - 2005

 

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