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Attualità del bene comune?

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di Piergiorgio Grassi
La sorpresa è di questi giorni. Un sondaggio a cura di Ilvo Diamanti per Demos-Coop ha rilevato che il bene comune occupa il quarto posto tra le parole che godono oggi di maggiore popolarità (dopo solidarietà, merito, energia pulita). Osservava Diamanti che l’insieme di questi termini “è divenuto il manifesto del cambiamento sociale dopo i referendum”. Bene comune era una formula indicibile ieri per chi volesse avere successo: il bene lo si faceva senza dichiararlo. Tanto più se comune, attinente cioè alla sfera pubblica e comunitaria. “Perché prevalevano altri riferimenti: l’individualismo: la furbizia, il cesarismo, il localismo. La morale pubblica e il cinismo sovrastavano largamente la morale e il civismo tra i valori della società. Dove l’an-estetica, l’indifferenza occupava un posto più importante dell’etica”. I cambiamenti in atto nel lessico degli italiani indicherebbero un cambiamento di clima culturale: è cambiata la gerarchia delle cose da dire nel discorso pubblico e nei rapporti con gli altri.

2. D’altra parte, l’espressione bene comune è stata pronunciata per anni nella Chiesa a bassa voce. Si riteneva da parte di alcuni autorevoli teologi che la dottrina sociale della Chiesa (di cui il bene comune è concetto-chiave) fosse destinata ad un’inevitabile eclisse e che se la si voleva mantenere, doveva limitarsi  però all’ambito di  un insegnamento sociale .Se ne riduceva la portata alla lettura di quelle res novae che costituiscono punti di convergenza per molte persone che esprimono la loro attesa”. La ripresa della dottrina è dovuta principalmente a Giovanni Paolo II che nella Sollicitudo rei socialis ne ha parlato come “ dell’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulla complessa realtà dell’esistenza dell’uomo… Suo scopo principale è di interpretare tale realtà, esaminandone la conformità o la difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua situazione terrena e insieme trascendente, per orientare quindi il comportamento cristiano. Essa appartiene perciò non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale” (41).

3. Il concetto di bene comune è rientrato nel lessico della Chiesa attraverso le settimane sociali dei cattolici, soprattutto attraverso la Settimana sociale del Centenario (Pistoia – Pisa 2007) che ha richiamato con forza la piena attualità della nozione, maturata sia nell’esperienza storica e nella riflessione dei cattolici sia nel magistero ordinario.
Si pensi, per quanto riguarda la prima dimensione, al contributo di Antonio Rosmini ne la Filosofia del diritto, laddove afferma che “ogni società si costituisce di un bene comune nel quale cospirino le volontà di più persone al fine di goderlo tutte, o di trarne tutte profitto” o nel Novecento al contributo di Jacques Maritain. Ne La persona umana e il bene comune ha precisato che il fine della società politica è appunto il bene comune, inteso come “la buona vita umana della moltitudine”, chiarendo ulteriormente che tale definizione implica “il riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone”.
Per quanto riguarda il magistero della Chiesa, l’enciclica Rerum Novarum (1891) di Leone XIII ha utilizzato un centinaio di volte l’espressione bene comune, mentre nella Pacem in terris di Giovanni XXIII si dice che il bene comune attiene “a tutto l’uomo, tanto ai bisogni del suo corpo quanto alle esigenze del suo spirito”(25) e che trova la sua piena  attuazione “nei diritti e nei doveri della persona” (60) . La Gaudium et spes, la costituzione pastorale sul mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II, connota il bene comune nei termini “dell’insieme delle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi come ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”.

4. Di fronte a questi dati di ordine sociologico ed ecclesiale che mostrano come l’espressione bene comune sia più che mai presente nei discorsi della gente, possiamo osservare che la filosofia del diritto e della politica impropriamente detti “laici”, mantengono una posizione critica. Gioca probabilmente un pre-giudizio, non ancora problematizzato: la persuasione cioè che l’idea di bene comune, mediata dall’aristotelismo politico (e passata in campo cattolico tramite il tomismo, nella stagione della sua ripresa, con Leone XIII appunto) sia irrimediabilmente legata alla tradizione del conservatorismo politico. Non a caso si cita spesso l’opera il Patriarcha (1680) di Robert Filmer, considerata l’autointerpretazione più efficace dell’Ancien règime. Filmer considerava l’ordine sociale stratificato di questa stagione storica (una gerarchia di ceti culminante bel monarca) come finalizzato al bene comune. Efficace la metafora da lui usata per spiegare la sua tesi: la comunità politica è simile alla famiglia nella quale il padre è assimilabile al re che opera per il bene di tutti i suoi figli.
Il pre-giudizio ha funzionato, per fare un solo esempio, anche  quando uscì la Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II. Il filosofo Lucio Colletti, passato anche troppo rapidamente dalle file del marxismo estremo al liberalismo, dichiarò in una intervista che l’enciclica era da rifiutare  perché  non compatibile con il pluralismo dei valori o del pluralismo come valore. A questo era di ostacolo anche il concetto di bene comune alla base del documento.

5. Non è quindi retorica la domanda posta come titolo di questo intervento. Bisogna riprendere a ragionare attorno al tema. Cominciando con il dire che la posizione di Filmer non è certamente assimilabile ad Aristotele, all’aristotelismo politico, alle tesi di Tommaso d’Aquino e alle tesi della Dottrina sociale della Chiesa. Se è vero, infatti, che anche Aristotele concepì la polis come un insieme di famiglie, notò subito che il bene comune della stessa si configurava attraverso le costituzioni che la reggevano. Buone erano le costituzioni che rendevano possibile la realizzazione delle facoltà di tutti suoi componenti, corrotte quelle che la impedivano. Inoltre la polis era strutturalmente diversa dalla famiglia. Ché se questa è una comunità di diseguali, la prima è una società di liberi e di eguali che esige un governo chiamato da Aristotele politìa, una forma di democrazia moderata che richiedeva la partecipazione di tutti, a turno, nel governo della polis.
Sempre nella linea aristotelico-tomista Jacques Maritain ne L’uomo e lo Stato
distingueva la comunità politica dalla società politica. Il bene comune della prima è dato (origini, tradizione e storia), quello della seconda è da realizzare: è un fine che esige intelligenza e volontà. In una comunità si nasce, in una società si entra per scelta deliberata e si coopera consapevolmente alla realizzazione del bene comune.

6. Esplicitiamo ora il senso di bene comune della Gaudium et spes, ricordando insieme la definizione che ne dà Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, vale a dire che: “Il bene comune non è la semplice somma di interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad una equilibrata gerarchia di valori e in ultima analisi ad una esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona”.
La definizione della Costituzione conciliare è inclusiva dei diritti civili, politici e sociali, a partire dal diritto alla vita, dal concepimento sino alla sua cessazione naturale. Ma nell’affermare ciò possiamo anche comprendere che in essi si esprimono istanze che vengono dalle principali correnti politico-culturali che si sono affermate tra Ottocento e Novecento. Da quella liberale che ha difeso libertà di pensiero, di parola, di stampa e di associazione, della eguaglianza delle opportunità, a quella democratica che ha insistito sulla partecipazione di tutti al governo della società politica tramite elezioni non manipolate, con adeguate modalità di rappresentanza e di controllo del governo, a quella del socialismo democratico  (e non solo) che ha elaborato il diritto alla salute,all’educazione al lavoro,alla cultura, ad un ambiente non ostile. Aspetti che sono stati ampiamente recepiti dalla nostra Costituzione.

7. Non si è poi così lontani dalle prospettive dell’ultimo Rawls (Liberalismo politico, 1993) che ha fatto propria l’idea di bene comune come fine della società politica; bene comune inteso come l’insieme dei valori condivisi da persone e gruppi orientati verso concezioni di vita diverse e spesso tra loro non compatibili. Valori che appartengono all’ambito del “consenso per intersezione”. Un approdo inedito dopo che nel suo più celebre libro, Teoria della giustizia (1971) Rawls aveva difeso la tesi secondo cui il giusto aveva il primato sul bene, con l’argomentare che è giusto assicurare a ciascuno libertà salute e reddito sufficiente per poter pianificare liberamente la propria esistenza. Le persone però concepiscono il bene in maniera diversa e non si deve proporre loro  una descrizione del bene medesimo che imponga l’unanimità su tutti gli standards della scelta razionale. Ciò sarebbe in contraddizione con la libertà di scelta che la giustizia come equità garantisce agli individui e ai gruppi nell’ambito di una struttura di istituzioni giuste.
L’impostazione di Rawls è stata duramente criticata dai filosofi “comunitaristi (A. Mac Intire; M.J.Sandel, M.Walzer…) che avevano intravvisto nella teoria del primato del giusto una venatura di utilitarismo poiché si dà rilievo al bene come interesse individuale, come soddisfazione dei desideri soggettivi. Inoltre, osservavano che il giusto implica una forma di intersoggettività (di società), da cui deve essere condiviso. Si tratta allora di un fine comune, un bene che è il prerequisito del giusto.

8. Ciò che fa problema è l’affermazione di Giovanni Paolo II che presupporrebbe l’accettazione o l’imposizione di una antropologia specifica , dal momento che fa  riferimento ad un’equilibrata gerarchia di valori nella valutazione e nella composizione degli interessi particolari, e “in ultima analisi ad un’esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona”. Con questa definizione si verrebbe a negare quel relativismo etico che, a partire da Hans Kelsen (I fondamenti della democrazia e altri saggi, 1936) è diventato un assioma fondamentale della cultura politica occidentale. La democrazia non può accettare una qualsivoglia concezione sostanziale del bene comune.
A ben guardare, però, la visione proposta dalla dottrina sociale della Chiesa fondata su un’antropologia che non risolve interamente la persona umana nella società politica, in quanto, parola di Tommaso d’Aquino, ”l’uomo non è ordinato alla società secondo tutto se stesso e secondo tutte le sue cose…ma tutto ciò che esso è ed ha deve essere ordinato a Dio”, enfatizza la libertà della persona umana. O come è stato scritto: “In base a questa dimensione di trascendenza l’uomo risulta in ultima analisi superiore e autonomo anche rispetto alla società politica, sia che egli usi questa autonomia per riferirsi ad un Assoluto trascendente, sia che eviti di determinarla positivamente in questa direzione, mantenendola aperta e indeterminata. Insomma l’idea classico-cristiana di bene comune con la gerarchia di valori e la concezione della persona che essa comporta, non impone nulla a nessuno e non limita in alcun modo nessuna concezione della persona, ma anzi la arricchisce tutte di un elemento ulteriore, lasciando ciascuno libero di tenerne conto o di non tenerne conto…è solo l’apertura di un varco oltre la politica, che poi ciascuno è libero di riempire nel modo che preferisce” (E. Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Pistoia 2006, p. 237).

9. Per concludere: la realizzazione della giustizia che è uno dei compiti imprescindibili dell’agire politico deve orientarsi sempre al bene comune che, come abbiamo visto, non è un concetto formale. Ha un suo fondamento nella comunità politica in quanto comunità di uomini che agiscono in maniera responsabile: Questo comporta sempre  il riconoscimento del “soggetto in se stesso”, vale a dire indipendentemente dai vincoli e dalle dipendenze in cui si trovano gli uomini. Per dirla con Bockenfoerde: “l’interesse comune di tutti deve andare di pari passo con questo riconoscimento… I diritti fondamentali dell’uomo che gli permettono di procedere in posizione eretta, e l’esistenza di una sfera di libertà e di proprietà…sono un fattore imprescindibile del bene comune, non sono affatto un semplice materiale da valutare in rapporto ad altri o un mezzo in vista di determinati scopi. Gli altri obiettivi del bene comune non possono essere realizzati a loro spese, ma soltanto assieme a loro e per loro tramite” (Cristianesimo, libertà, democrazia, Brescia 2007, p. 253).

 




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