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Venerdì 19 aprile, ore 2024
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Proposta di riflessione agli Amministratori locali in occasione del Natale

Saluto di cuore ciascuno di voi e vi ringrazio per aver accolto l’invito rivoltovi dall’Azione Cattolica Diocesana, che si è resa disponibile, attraverso varie iniziative curate dall’Ufficio Socio Politico, ad assicurare il confronto costruttivo con quanti sono impegnati nelle realtà sociali e politiche delle nostre città. Come Associazione, infatti, ci pare profetico creare occasioni di discernimento comunitario, di confronto aperto a tutte le forze vive della società civile per favorire da una parte la crescita di persone che scelgano la politica come servizio e dall’altra il ritorno alla politica come visione, come progetto, come sogno.

Ricordo di aver letto il racconto dell’esperienza che Mons. Ancel, una delle figure più

prestigiose al tempo del Concilio, fece un giorno, nel corso di una visita pastorale, quando incontrando un povero contadino si sentì dire: «Non sappiamo più per chi votare. Una volta la Chiesa ci dava indicazioni precise e noi, povera gente, si sapeva di dover fare il contrario. Ma ora che la Chiesa non ci dice più niente…».

L’aneddoto non è solo gustoso: fa pensare. È bene che la Chiesa rimanga al di fuori della dialettica – o rissa? – elettorale, perché c’è il rischio di pronunciarsi e di schierarsi non tanto sui principi, ma su metodologie che appartengono al campo dell’opinabile e quindi sono di competenza delle persone che responsabilmente operano sul terreno politico. Ciò non toglie che, per quanto riguarda i valori fondamentali in gioco, sia importante aiutare a fare chiarezza.

Nel riconoscere il significato e il valore delle Istituzioni, non c’è dubbio che un ruolo del tutto particolare spetta proprio a voi, amministratori degli enti locali. In modo più immediato e diretto che non gli altri, voi avete la possibilità, e dunque il compito faticoso ed esaltante, di favorire una nuova alleanza tra i cittadini e le Istituzioni, così da generare un rinnovato interesse di tutti per ciò che è di tutti e che riguarda tutti.

Voi, più di altri, siete in grado di aiutare il cittadino a sentire l’Istituzione non come una “realtà nemica” da cui difendersi, ma come una “realtà amica”. Voi lo potete fare perché il Comune è il luogo “più vicino” al cittadino dal punto di vista istituzionale, è il luogo “più quotidiano” nel quale lo stesso cittadino incontra lo Stato. Il che significa da parte vostra, in quanto amministratori, assolvere il compito di spingere tutti, e sempre di più, verso una cittadinanza compiuta, che si fondi sul valore della persona e sul suo sviluppo integrale.

Il Natale ci ricorda che il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (cf Gv 1,14).

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Queste parole di S. Giovanni sono un richiamo a credere che Dio è veramente venuto in questo mondo e, pertanto, la nostra storia è veramente storia di salvezza perché Dio si è coinvolto in prima persona dentro la mischia degli avvenimenti che formano la storia umana. Ma in quale situazione storica Dio è nato? È nato quando la storia umana era guidata da personaggi potenti come Cesare Augusto, Erode il Grande e Quirinio, ed è vissuto sotto Tiberio, Pilato, Erode Antipa, Anna e Caifa, Sommi Sacerdoti.

Personaggi questi tanto discussi, accecati dal potere, dalla carriera, dalla lussuria. Propri queste persone, con il loro groviglio di meschinità, fanno da cornice alla nascita e ai primi passi di Gesù. Sono loro la vera stalla, la stalla più vera di quella di Betlemme. Eppure – dicono gli evangelisti – Dio arriva. Anche nella palude nasce un fiore: non esiste situazione umana e storica nella quale Dio non possa nascere e non possa essere il Salvatore. Questo è il grande insegnamento del Natale: un insegnamento di speranza incrollabile e di ottimismo a tutta prova. Quanta fiducia nasce da questa certezza! Un giorno e un preciso giorno, un anno e un preciso anno Dio si è fatto largo fra le vicende umane. E da quel momento il mondo è diverso, perché Dio si è inserito nel tempo. Che significa questo? Significa che il mondo non è solo il teatro dei violenti e dei prepotenti: c’è anche Dio che cammina nelle strade e nelle vicende umane. E se Dio è cittadino della storia, perché dobbiamo avere paura? Anche a noi è oggi rivolto l’invito dell’Angelo: Non temete! E interessante notare che questo verbo ricorre nella Bibbia 365 volte, quasi a suggerire l’idea che ogni giorno Dio ci saluta così: non temere, io sono con te!

Sull’esempio del Figlio di Dio, dedicarsi all’amministrazione significa amare la “civitas” come la amata Cristo – amare cioè la città, i suoi cittadini e i diritti di cittadinanza – impegnandosi a “costruire” una comunità di persone capaci di vivere in modo pieno la loro cittadinanza in uno scambio di relazioni personali, solidali e profonde. Affinché ciò avvenga occorre dare concretezza al proprio servizio amministrativo, a condizione che si parta dalle piccole cose e che si abbiano a cuore, nella certezza che esse hanno realmente la forza di favorire e costruire il bene della società civile in cui si vive e si opera.

Eccone alcune:

- Imparare ad amare la Città giorno dopo giorno, nella fatica a volte di una banalità quotidiana, dove si è costretti ad occuparsi dei litigi che avvengono tra vicini di casa, dello scuolabus che arriva sempre tardi, dei tombini che saltano, dei semafori che non funzionano, delle buche disseminate lungo le strade asfaltate… Avere a cuore il bene comune significa non lasciarsi mai sconfiggere dal grigiore di queste “cose”, convinti che dietro ad esse ci sono sempre delle persone. Sono persone che hanno un problema e sperimentano una necessità o un bisogno e che li manifestano come possono, magari con arroganza e, talvolta, persino con modi incivili, ma che, nonostante ciò, sono da ascoltare, anzi da “servire”, proprio perché persone.

- Sapere che – come sottolinea la Pacem in Terris di Giovanni XXIII – , per amministrare una città, non è sufficiente essere illuminati dalla fede cristiana, o da qualche altra fede religiosa, e neppure essere accesi dalla buona volontà e dal desiderio del bene. Questi sono prerequisiti necessari, ma che da soli non bastano. Sono necessarie anche competenza, capacità, esperienza: cose tutte che non si improvvisano, ma che si costruiscono con una preparazione e un apprendistato seri, accurati, impegnativi, non frettolosi o superficiali (cf Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 51).

- Vivere il proprio impegno amministrativo come “dono gratuito” alla città, ossia come impegno disinteressato di tempo, di energie e di studio, come capacità di ascolto, come esercizio di onestà e atteggiamento di giustizia – per così dire – “senza misura”, cioè senza confronti, senza rimpianti, senza calcoli di tornaconti o, peggio, di interessi personali, per quanto piccoli possano essere o sembrare. Ciò richiede uno stile di dedizione e di servizio. Uno stile, cioè, fatto di amore e di disinteresse; di concreta disponibilità a perdere se stessi, il proprio tempo e le proprie cose; di rifiuto a subordinare il bene generale a quello particolare, senza cercare un indebito vantaggio economico, sociale e politico per se stesso, la propria famiglia, il proprio gruppo.

- Riconoscere che alcuni comportamenti rimangono comunque immorali, perché contrastano intrinsecamente con la dignità umana e con la nobiltà dell’azione politica, che è e deve essere azione eminentemente umana. Al riguardo il beato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Veritatis Splendor ricorda che «la veridicità nei rapporti tra governanti e governanti, la trasparenza nella pubblica amministrazione, l’imparzialità nel servizio della cosa pubblica, il rispetto dei diritti degli avversari politici, la tutela dei diritti degli accusati contro processi e condanne sommarie, l’uso giusto e onesto del pubblico denaro, il rifiuto di mezzi equivoci o illeciti per conquistare, mantenere e aumentare ad ogni costo il potere, sono principi che trovano la loro radice prima – come pure la loro singolare urgenza – nel valore trascendente della persona e nelle esigenze morali oggettive di funzionamento degli Stati» (n. 101).

- Vivere l’impegno sociale e politico con senso di responsabilità. È una responsabilità da intendere come risposta alla propria coscienza e come “sottomissione” al giudizio di Dio. L’ascolto della voce della coscienza, infatti, sollecita a vivere la responsabilità politica radicandola e vivificandola in quella propriamente morale e religiosa. Per questo, chi è impegnato in campo politico non si accontenti di rispondere solo – come peraltro è doveroso – alle richieste dei propri elettori, ma rimanga sempre soggetto all’istanza e all’urgenza di rispondere alla propria coscienza. In politica, prima che al popolo, occorre rispondere a se stessi e a Dio; occorre mettersi al servizio del progetto di Dio sull’uomo e sul mondo. L’impegno sociale e politico, per essere degno di questo nome, deve sempre rispettare l’ordine morale e, più radicalmente, la verità dell’uomo.

- Non cedere alla tentazione di dire “sì” a tutti, e di dirlo a ciascuno “separatamente”. E questo sia perché la somma dei desideri dei singoli non genera mai una risposta di “interesse comune”, sia perché in politica, un “sì” dovrebbe accompagnarsi anche almeno a qualche “no”: se, invece, c’è una lunga serie di “sì”, ci troviamo inevitabilmente di fronte a promesse che finiscono per essere illusorie. Sono promesse che producono aspettative: ma queste non potranno essere soddisfatte; faranno solo nascere delusione, irritazione e sfiducia nella polita e nelle Istituzioni.

- Sapere che il compito dell’amministratore non è quello di rendere meno diseguale la città, ma di renderla meno diseguale effettivamente, non a parole, non immaginando di essere superuomini che possono tutto, ma che poi non agiscono. Rendere meno diseguale la città significa pensare anzitutto ai più deboli e ai poveri, significa pensare alla politica sociale e a quella dell’integrazione, ma anche alla famiglia e alla vita, all’educazione e alla scuola, alle politiche della mobilità, e a quelle del riassetto urbanistico, alla sanità, alla vivibilità della città, al recupero e alla qualità dell’ambiente. E per fare tutto questo diventa sempre più necessario agire insieme. Non è più il tempo delle mura di cinta e del ponte levatoio! I particolarismi non producono affatto una diminuzione delle disuguaglianze, ma, al contrario, le aggravano e, attraverso la chiusura e l’isolamento, impoveriscono non poco le nostre comunità.

Dove attingere quella capacità di discernimento che è necessaria per fare le scelte giuste? La parola guida per eccellenza è quella che si trova nel discorso della montagna, là dove sono proclamate le beatitudini (Mt 5,1-12).

Beati i poveri in spirito

Una politica è cristiana quando vede la realtà con gli occhi dei poveri, mentre non si può dire cristiana quando promuove «un liberalismo che assicura ricchezza e sviluppo a chi già ne gode ma che non garantisce sicurezza e serenità a chi si trova in situazione di disagio» (Mons. Luigi Bettazzi). Non si dà amministratore serio che non senta il tema della povertà e il dovere della solidarietà tra chi può e chi non ha.

Beati gli afflitti. Beati i misericordiosi

L’attenzione agli afflitti non può essere governata da uno spirito di parte, come se esistesse un dolore meritevole di attenzione e un altro da lasciare tranquillamente ai margini. Il dolore è un grido che travalica ogni frontiera perché arriva a Dio e Dio lo fa riecheggiare nel cuore di ogni uomo.

È il grido di chi non ha voce perché non è ancora nato, di chi è considerato un nemico solo per il fatto che è “diverso”, di chi nel matrimonio subisce la prepotenza e l’abbandono.

Beati i miti

È una beatitudine che dovrebbe mettere fuori gioco tutti gli intolleranti, i fanatici, gli arroganti, i presuntuosi, quelli animati da spirito vendicativo e che dicono di voler far «piazza pulita», quelli che preferiscono mostrare i muscoli invece che le doti della ragione.

Beati i puri di cuore

I puri di cuore sono quelli che hanno il cuore non diviso. Non sono perciò puri di cuore quelli che in politica fanno professione di fedeltà a Dio e alla Chiesa (Cristo impugnerebbe ancora la frusta per cacciare certi mercanti dal tempio), mentre non rispettano quel Dio che ha scelto di stare dalla parte degli umiliati e degli indifesi.

Beati gli operatori di pace

La pace nasce dal rispetto della libertà delle persone e della loro dignità. Non basta il rispetto della libertà se questo dovesse significare, come ha detto qualcuno, «libere volpi tra libere galline».

Servirebbe poco dare agli individui la libertà senza una giustizia che permetta di godere dei vantaggi della libertà.

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia.

Beati i perseguitati a causa della giustizia.

Non i perseguitati dalla giustizia, ma i perseguitati a causa del loro amore per tutto ciò che Cristo ha predicato, anche a costo di subire la stessa sorte. Non va peraltro dimenticato che le forme di persecuzione sono cambiate rispetto al tempo dei primi martiri.

Scriveva Ilario di Poitiers, vescovo e padre della Chiesa (IV sec.), che a perseguitarci non è più un imperatore anticristiano, ma «un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga …: non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro».

In una società in cui conta unicamente l’avere, il possesso, il successo, dove la libertà più tutelata è quella di arricchirsi, è necessario andare contro corrente esprimendo indignazione e opposizione.

«Non conformatevi a questo secolo», ammonisce l’apostolo Paolo (Rm 12,2). Non siate conformisti nei confronti della mentalità di questo tempo!

Queste riflessioni a partire dalle beatitudini non permettono sempre di scegliere con assoluta sicurezza una formazione politica piuttosto che un’altra, sia perché in nessuna di esse i valori del Vangelo sono presenti senza incoerenze e contraddizioni, sia perché, come già si diceva, le modalità pratiche per attuarli possono essere diverse e tutte discutibili.

Esse comunque aiutano a discernere in che misura certi programmi sono coerenti o contraddittori rispetto alla fede e, prima ancora, rispetto a quell’etica fondamentale che assegna a ogni essere umano un diritto inviolabile.

E quando si arriva a capire, se pure con tutta la fatica che questa ricerca comporta, da che parte c’è il timbro di una maggiore autenticità evangelica, non è più possibile comportarsi come il contadino di cui ha parlato monsignor Ancel.

Se scegli il contrario, non è più per ragione di fedeltà alla tua coscienza, ma perché stai sacrificando proprio quella coscienza che il Vangelo ha trasmesso come criterio di discernimento tra tante menzogne ammantante di accattivanti promesse.

E da ultimo – quelli che tra voi hanno il dono della fede – non possono non concepire il proprio impegno politico come incarnazione ed espressione della fede che diventa missione d’amore. Già Pio XI aveva definito la politica come «il campo della più vasta carità». E Giovanni Paolo II più volte ha richiamato i cristiani all’obbligo di impegnarsi con senso di responsabilità nell’azione politica. E forse c’è ancora bisogno di invocare una presenza più significativa e più consistente dei nostri cattolici in questo ambito. Certo, non si tratta di cercare attraverso la politica l’interesse personale o di gruppo o di assicurare la pura funzionalità dei meccanismi economici e produttivi, ma di concepire il potere come servizio, di valorizzare la dignità della persona umana, di prestare attenzione a chi è povero e debole, di promuovere una cultura della condivisione. Occorre una politica non dagli occhi asciutti, ma intrisa di vera umanità. Un’azione politica che si fa carico delle istanze di chi è ferito perché non abbia più ferite, di chi è povero perché non sia più disumanizzato.

Una prassi politica che si attiva non solo per curare i malcapitati della nostra società, ma che soprattutto opera perché non ce ne siano più. Quando questo obiettivo diventerà prassi allora si potrà dire – secondo una felice affermazione del teologo Congar – che la fede può diventare anche politica, ma politica vera, intesa nel senso di servire l’uomo e non servirsi dell’uomo. Se poi su questo cammino l’uomo di fede impegnato in politica incontra altri che, pur non avendo la stessa fede religiosa, sono impegnati sugli stessi valori, non c’è che da rallegrarsi. Non abbiamo, in quanto cristiani, il monopolio dell’amore. C’è un’interrogazione contenuta nelle prime pagine della Bibbia che deve risuonare sempre nel cuore di un politico ed è la seguente: «Che hai fatto di tuo fratello?» (Gn 4,9-10), di quel fratello che rappresenti nella gestione della cosa pubblica e al quale hai assicurato tutto il tuo impegno per umanizzare la vita?

Come AC intendiamo non solo formulare generici auspici, ma intraprendere strade e percorsi che, nella ricerca paziente e secondo lo stile della scelta religiosa, siano in grado sia di rispondere ai numerosi problemi delle nostre città sia di costruire reti di fraternità all’interno delle quali poter vivere l’impegno ad essere laici credenti dentro le realtà della politica, della società e dell’economia.

Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. La sua arma è l’amore. Si è rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo, in questi giorni natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti dell’Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di farci sperimentare il potere della sua bontà.

Molfetta, 16 dicembre 2011

Sac. Pietro Rubini

Assistente Unitario Azione Cattolica

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