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Venerdì 19 aprile, ore 2024
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La memoria si mette al lavoro, per tentare la sua rivincita sulla morte

a cura di Antonio Campo

Luigi Pintor era un giornalista. Comunista. Come Pietro Ingrao. Entrambi atei.

Il giorno dopo la morte di Pintor, Ingrao ne scrisse un ricordo sul Manifesto, giornale che il primo aveva fondato e poi diretto per molti anni.

“Da domani”, lessi ad un certo punto in quell’articolo che si interrogava sul senso e sul valore della vita di un uomo appena scomparso, “la memoria si mette al lavoro, per tentare la sua rivincita sulla morte”.

“…la memoria si mette al lavoro, per tentare la sua rivincita sulla morte…”.

Pensai subito alla Resurrezione e a come ce la immaginiamo solitamente: una specie di magia, una consolante magia, che fa rivivere i morti in un altro posto, al di là delle nuvole.

E conclusi che quella che avevo appena letto era invece una definizione straordinariamente concreta di quel mistero che arrovella gli uomini ogni volta che si trovano di fronte alla fine di un’esistenza e li lascia sospesi tra nostalgia e sogno. La dolorosa nostalgia per chi non c’è più e il sogno – forse più il bisogno – di rivederlo, di ritrovarlo, da qualche parte, in qualche tempo.

 

Mettere la memoria al lavoro per tentare la rivincita sulla morte.

Rivisitare fotogrammi e immagini perché non si scolorino.

Rileggere pagine perché non sbiadiscano.

Riascoltare voci e suoni perché non perdano di intensità.

Praticare, insomma, l’esercizio del ricordo come mezzo per proclamare l’eternità. Ma, soprattutto, come strumento per ridare vita al ricordo nella nostra vita di ogni giorno, proseguendo noi il cammino interrotto. E vincendo noi la morte impedendole di scolorire lei quei fotogrammi, quelle immagini; di sbiadire lei quelle pagine; di far perdere lei intensità a quelle voci, a quei suoni.

Perché mentre oggi ci è dato solo di credere nella Resurrezione, in attesa di poter vedere con i nostri occhi, possiamo certamente vivere questo mistero portando nella nostra esistenza il meglio dell’esistenza di chi non c’è più. Dando colore ai fotogrammi e alle immagini. Ravvivando le pagine. Tenendo alto il volume delle voci e dei suoni.

 

Mettere la memoria al lavoro per tentare la rivincita sulla morte: ci piace vedere così questo incontro di stasera, a dieci anni esatti di distanza da quel tristissimo pomeriggio del ’96.

E fare questo significa poter parlare di un amico usando i verbi non con i tempi del passato ma coniugandoli al presente. Non ricordando, quindi, chi era Pino, come era Pino. Ma potendo dire chi è Pino, come è Pino.

 

Pino è buono.

La bontà è il tratto essenziale del suo essere. Non deve fare sforzi per esserlo: è così sempre, e così e basta.

Non è capace di pensieri cattivi. Non è capace di parole cattive. Non è capace di non essere buono.

E se talvolta non lo è, non è lui: è quell’altro io che tutti ci portiamo dentro e che ogni tanto riesce a venir fuori giusto il tempo che ci serve per ricacciarlo dentro.

 

Pino è allegro.

Di quell’allegria che ti contagia. Che ti fa chiedere: “Ma come fa ad essere sempre così gioviale?”. Che ti fa quasi invidiare quella naturale esuberanza che tu non riesci ad esprimere perché ti fai mille problemi, perché pensi a cosa penserà la gente, perché sei preoccupato di sembrare una persona seria.

E quando non è allegro, sicuramente è perché qualcosa o qualcuno lo ha ferito. E lui sta già pensando che deve trovare la forza di superare quel momento, di perdonare se serve, per tornare ad essere allegro.

 

Pino è mite.

Come può esserlo solo chi non riesce ad essere violento, ad usare la violenza sugli altri. Come può esserlo solo chi è convinto che non si possono affermare le proprie ragioni gridando più forte o alzando le mani, perché sa che la violenza usata una volta viene assorbita e poi riusata, tante e tante volte, all’infinito o almeno fino a quando chi l’ha usata per primo non la ripudia ed è capace di chiedere perdono.

Lo si può vedere, talvolta, irato. Ma l’ira è il sentimento di chi si indigna per le ingiustizie, per i torti, per i soprusi. Ma sa anche tornare subito in sé, per cercare magari di comprendere le ragioni dell’altro, e soprattutto trovare il modo per riparare ciò che si è rotto e riaffermare la giustizia.

 

Pino è semplice.

Non fa discorsi contorti. Non usa paroloni. Non gioca con i termini. Semmai è franco, diretto, pane al pane vino al vino, sì sì no no. Se si parla con lui non ci si può sentire presi in giro. E se dice una cosa gli si può credere.

Porta anche responsabilità importanti, nel lavoro come nella vita ecclesiale, ma non ne mena vanto, non insuperbisce. Anzi, fa tutto con umiltà e con grande dedizione, consapevole delle sue debolezze.

 

Pino è Anna.

Sa che il suo dovere di sposo è la felicità della donna che ama. Sa di dover essere il servo dei suoi sogni, lo strumento della sua realizzazione come donna. E mette lei davanti a chiunque altra. Lei prima di ogni altra cosa. Lei sopra tutto. Lei prima di se stesso.

La difende dalle offese. Copre le sue intemperanze. Stempera le sue gelosie. Tollera i suoi sbalzi d’umore. Incoraggia le sue scelte. Accontenta i suoi desideri.

E se gli capita di farle del male o semplicemente di fare qualcosa che possa darle la sensazione di non essere amata è solo perché l’amore ha talvolta delle pause, incomprensibili ma le ha, fa parte del suo mistero. E lui non sfugge alla regola, ma sa poi ricominciare, trasformando la crisi in una ripartenza d’amore.

 

Pino è per gli altri.

Che si tratti di stare vicino ad un compagno di navigazione in difficoltà per la lontananza da casa o di registrare per un amico una cassetta selezionando tutti i pezzi strumentali dei Pooh, o di farsi decine di chilometri in 126 per accompagnarne un altro senza macchina a trovare la fidanzata al camposcuola, lui c’è. “Non posso” non è una frase del suo repertorio.

 

Pino è buono, è allegro, è mite, è semplice, è Anna, è per gli altri, probabilmente perché ha un modello a cui ispira la sua vita. Quel modello si chiama Gesù.

Ascoltarne le parole, adorarne e mangiarne il corpo, seguirne l’esempio sta alla base del suo essere, in cima ai suoi pensieri, in fondo al suo cuore.

Il Vangelo non è per lui un libro come tanti altri. E’ il libro. Lo legge in chiesa, innanzitutto, ma lo tiene aperto anche a casa, e lo mette sempre nella valigia dei suoi imbarchi.

E’ la fonte di tutto il suo essere, la sorgente a cui torna nei momenti difficili. E’ speranza ed è certezza. Ma soprattutto è impegno.

 

Pino è ciascuno di noi.

Si chiama Nicola quando Nicola è buono.

Si chiama Maria quando Maria è allegra.

Si chiama Vito quando Vito è mite.

Si chiama Luisa quando Luisa è semplice.

Si chiama Giuseppe quando Giuseppe è per gli altri.

Si chiama Susanna quando Susanna ha Gesù come modello.

Si chiama con il nostro nome quando, dopo aver messo al lavoro la memoria, trasformiamo in vita i ricordi e così ci aggiudichiamo la rivincita con la morte.

 

In fondo, forse è questo che voleva dire don Tonino quando, ponendosi come tutti la domanda più difficile, scriveva: “…perché si muoia io non lo so. Sono convinto che il senso della morte… non si trovi in fondo ai nostri ragionamenti ma sempre in fondo al nostro impegno”.






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